La precarietà lavorativa e la conseguente incertezza reddituale ha infatti pesanti impatti economici e sociali, inducendo i lavoratori atipici a rimandare importanti scelte quali la formazione della famiglia, la decisone di avere figli, ma anche l'acquisto della casa o l'investimento in pensioni integrative.
La Legge Biagi
Tra le forme più diffuse (e discusse) di precariato troviamo la figura del collaboratore (coordinato e continuativo o a progetto): un vero ibrido tra il lavoratore dipendente e il lavoratore autonomo.
Sono infatti formalmente lavoratori autonomi, ma, nella stragrande maggioranza dei casi, le loro condizioni di lavoro (orario, luogo di lavoro, gradi di autonomia decisionale) non sono affatto dissimili da quelle dei lavoratori dipendenti.
La legge 30 del 2003 (Legge Biagi) ha cercato di limitare l'uso del contratto di collaborazione coordinata e continuativa nel settore privato (ma i co.co.co restano nel settore pubblico) e ha introdotto il contratto a progetto per cui il collaboratore dovrebbe lavorare su uno o più specifici progetti definiti nel contratto. Tuttavia, la possibilità di verifica da parte dell'autorità giudiziaria è limitata all'esistenza del progetto, e un controllo nel merito non è possibile. La Legge Biagi ha prodotto semplicemente una trasformazione degli esistenti contratti di collaborazione coordinata e continuativa in contratti a progetto, senza risolvere il problema delle collaborazioni fasulle.
Ma quanti sono e che caratteristiche hanno oggi i collaboratori in Italia?
Quanti sono
La mancanza di una definizione legale dei contratti di collaborazione rende difficile misurare con precisione l'incidenza del lavoro parasubordinato tra gli occupati. La categoria, infatti, è estremamente eterogenea: studenti lavoratori, neo-laureati in attesa "del posto fisso", lavoratori poco qualificati che trovano a fatica occupazioni stabili, individui (specialmente donne) che desiderano un lavoro più flessibile in termini di orario, pensionati divenuti collaboratori dell'impresa per cui prima lavoravano, occupati regolarmente per cui la collaborazione rappresenta un secondo lavoro, e così via.
Ovviamente la questione della precarietà ha un impatto assai diverso su ciascuna di questefigure .
Le ultime stime Istat, riferite al 2004, parlano di circa 400mila collaboratori , anche se per l'Ires il numero sottostimerebbe la reale consistenza del fenomeno.
Chi sono
Sono prevalentemente donne (circa il 60 per cento, contro il 44 per cento tra i lavoratori dipendenti e il 25 per cento tra gli autonomi), mediamente più istruiti dei dipendenti (il 30 per cento ha una laurea contro il 14 per cento tra i lavoratori dipendenti), vivono per quasi la metà nelle regioni del Nord Italia (e il 30 per cento nel Nord Ovest). I collaboratori sono in media più giovani dei lavoratori dipendenti: un terzo dei collaboratori ha tra i 20 e i 30 anni, un terzo tra i 30 e i 40, ma una quota non trascurabile (20 per cento) ha tra i 40 e 50 anni. (1)
Che lavori svolgono
Lavorano per lo più nel settore dei servizi (42 per cento), ed in particolare nel turismo, nei trasporti e nei servizi finanziari, o nel settore pubblico (25 per cento). I collaboratori si concentrano nelle professioni a medio-alta qualifica: svolgono per lo più mansioni tecniche (35 per cento), impiegatizie (20 per cento) e professioni "intellettuali" o di ricerca (18 per cento).
La loro scarsa autonomia e la forte dipendenza economica dal committente è dimostrata da tre dati eclatanti: il 90 per cento dei collaboratori lavora per un singolo committente, l'83 per cento lavora nei locali del committente e il 60 per cento è tenuto a rispettare l'orario di lavoro fissato dal committente. Dato interessante è la relativa alta incidenza del part-time tra i collaboratori (circa il 40 per cento contro il 13 per cento tra i lavoratori dipendenti).
I diritti
Provvedimenti legislativi successivi alla legge 335 del 1995 (istituzione della "gestione separata presso l'Inps) hanno esteso, dal 1998, ai collaboratori il diritto agli assegni familiari e all'assegno durante la maternità e in caso di ricoveri ospedalieri (ma non in caso di malattia senza ospedalizzazione) e dal 2000 hanno reso obbligatoria l'assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali.
Tuttavia, una lunga lista di diritti tipici dei lavoratori a tempo determinato non sono ancora stati estesi ai collaboratori, anche per la mancanza di contratti collettivi: oltre all'assenza retribuita per malattia, non esistono regole per il salario minimo, le ferie retribuite, il diritto ad azioni sindacali, le pari opportunità e i diritti alla formazione.
Il salario
Uno studio dell'Ires nel 2005 (http://www.ires.it/files/sintesi_ricerca_ires_21_10_05.pdf) ci informa che il 46 per cento dei collaboratori intervistati guadagna meno di mille euro al mese, dato coerente con quello riportato da Lia Pacelli e riferito ai dati Inps 1999. L'Istat, purtroppo, non pubblica l'informazione relativa al reddito percepito dagli intervistati. I contributi previdenziali notevolmente più bassi rispetto a quelli dei dipendenti, pongono infine un serio problema per il futuro, per le basse pensioni maturate da coloro che lavorano per lunghi periodi con contratti di collaborazione.
Una porta per l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro?
La risposta sembra essere negativa: l'incidenza dei lavoratori al primo contratto non è significativamente diversa se confrontiamo i collaboratori con i lavoratori dipendenti e ben l'80 per cento dei collaboratori nel 2003 hanno ancora un contratto di collaborazione nel 2004. Anche lo studio Ires del 2005 dimostra che circa il 70 per cento dei collaboratori intervistati a distanza di un anno è ancora collaboratore e solo il 7 per cento è passato a un contratto a tempo indeterminato (mentre il 6 per cento è passato a un altro tipo di contratto a tempo determinato). Non solo, ma il 64 per cento lavora ancora per la stessa impresa dell'anno precedente.
Sembra evidente quindi che la posizione di debolezza dei collaboratori sia legata alla dipendenza economica dal committente (troppo spesso unico), dalla mancanza di diritti e dalla retribuzione spesso più bassa rispetto a quella dei lavoratori dipendenti, che non prevede pertanto né un premio per il rischio imprenditoriale né un indennizzo implicito per eventuali periodi di inattività. Se è poi vero che molti di questi collaboratori sono relativamente giovani, si pone anche il problema degli scarsi incentivi per le imprese e per i lavoratori stessi a investire in capitale umano.
Per tutte queste ragioni l'88 per cento degli collaboratori intervistati dall'Istat vorrebbe un lavoro a tempo indeterminato.
I dati sembrano poi confermare che la gran parte delle collaborazioni nasconde in realtà rapporti di lavoro subordinati.
Una regolamentazione da rivedere
Sembra ormai largamente accettata l'idea che occorra rivedere completamente la regolamentazione del mercato del lavoro e in particolare prevedere di estendere le tutele previste per i lavoratori subordinati anche ai "lavoratori economicamente dipendenti", così come auspicato dalla Corte di giustizia europea.
Le possibili soluzioni vanno poi individuate tenendo conto di una pluralità di fattori: gli obiettivi di politica economica, le esigenze delle imprese, la necessità di contrastare una precarietà che ha elevati costi sociali e la disoccupazione (o sottoccupazione) giovanile.
Se l'obiettivo è quello di favorire l'ingresso nel mercato del lavoro delle nuove generazioni i contratti di collaborazione sembrano aver fallito l'obiettivo. Come evidenziano Tito Boeri e Pietro Garibaldi il precariato ha solo creato un mercato del lavoro "secondario" con meno tutele e con scarse possibilità di passare a quello "primario".
Per quanto riguarda le esigenze delle imprese, la flessibilità in ingresso potrebbe essere garantita con periodi di prova più lunghi, mentre una "indennità di licenziamento" consentirebbe alle imprese di attribuire un costo definito e certo per la flessibilità in uscita.
Come dimostrano i dati, molte aziende hanno usato le possibilità offerte dalla Legge Biagi non tanto per contrastare eventuali cali della domanda o per rispondere a esigenze di flessibilità produttiva, ma piuttosto con l'obiettivo di ottenere sensibili riduzioni del costo del lavoro. L'idea che l'aumento della competitività del sistema produttivo italiano passi per una riduzione del costo del lavoro è, oltre che sconsigliabile per gli effetti negativi sulla domanda, anche anacronistica: possiamo competere col costo del lavoro dei paesi emergenti? È davvero questo il terreno su cui misurarsi nell'economia globalizzata? Un'accorta politica economica dovrebbe, al contrario, spingere le imprese italiane verso gli elementi chiave nella competizione globale: investimenti, riorganizzazione produttiva, innovazione, formazione.
(1) Qui e più avanti si utilizzano i dati Istat riferiti al quarto quadrimestre 2004, si veda Ulrike Muehlberger e Silvia Pasqua (2006).