1. Le norme esaminate
L'art. 43, terzo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e l'art. 57, terzo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, inseriti con l'art. 37, commi 24 e 25, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, dispongono che, in caso di violazione che comporti l'obbligo di denuncia alla procura della Repubblica, ai sensi dell'art. 331 c.p.p. - quindi nel caso in cui un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio apprenda la notizia che è stato commesso uno dei reati tributari previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 - i termini di accertamento ai fini delle imposte dirette e dell'IVA sono raddoppiati: quindi da quattro a otto anni per le dichiarazioni presentate e da cinque e dieci anni per quelle omesse.
Il raddoppio dei termini si applica a partire dal periodo d'imposta nel quale, al 4 luglio 2006, erano ancora pendenti i termini di quattro e cinque anni su menzionati.
Presupposto per il raddoppio dei termini di decadenza dell'accertamento è quindi, secondo l'interpretazione consentita dal senso fatto palese dal significato proprio delle parole (art. 12 preleggi al cod. civ.), la commissione di un atto che costituisca elemento materiale di uno dei delitti in materia di imposte dirette e di IVA, previsti dalla citato D.Lgs. n. 74/2000. Tuttavia, se si condizionasse il raddoppio dei termini di accertamento del debito d'imposta all'accertamento giudiziale del reato tributario (riservato evidentemente al giudice penale), si verrebbe a sovvertire il principio del cosiddetto doppio binario, che, per pacifico assunto, comporta l'inesistenza di una pregiudiziale penale all'accertamento delle violazioni fiscali e vieta la sospensione del processo tributario in pendenza di un procedimento penale, ancorché esso abbia per oggetto l'accertamento dei medesimi fatti, rilevanti ai fini della decisione.
2. L'intervento della Corte Costituzionale
La Corte Costituzionale, con sentenza 25 luglio 2011, n. 247, ha ritenuto che presupposto per il raddoppio dei termini (o l'applicazione del c.d. termine lungo) non sia la commissione di una violazione rilevante ai fini penali, bensì l'accertamento da parte dell'Amministrazione finanziaria di un fatto che la obbliga, in quanto pubblico ufficiale, a farne denuncia all'Autorità giudiziaria quale notizia di reato. La Corte ha affermato che «il raddoppio dei termini deriva dall'insorgenza dell'obbligo della denuncia penale [anche dopo che sia spirato il termine di decadenza ordinario] indipendentemente dall'effettiva presentazione di tale denuncia o da un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato», ancorché il giudice tributario, al termine del relativo contenzioso, abbia riconosciuto un maggiore imponibile o dichiarato dovuta una maggiore imposta, per importi non rilevanti ai fini penali.
Pertanto, di fatto, nonostante la lettera della legge, presupposto per il raddoppio dei termini non sarebbe il compimento di una violazione, ma l'accertamento di tale violazione da parte dell'Amministrazione finanziaria: quindi non una situazione di fatto, ma la sua rappresentazione secondo quanto ritenuto da una delle parti in causa. Tale assunto, se dettato dalla necessità di non sovvertire il principio del doppio binario e quindi di consentire la prosecuzione del processo avanti al giudice tributario senza attendere la pronuncia del giudice penale, può essere accettato, fermo restando che, per altri versi e per gli effetti che saranno delineati in seguito, presupposto per il raddoppio dei termini rimane quello additato dalla legge, ovvero una violazione fiscale a rilevanza penale.
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