Non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare, durante tale assenza, un'attività lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore d'opera.
Sicché, non si configura una giusta causa di licenziamento ove non sia stato provato che il lavoratore abbia agito fraudolentemente in danno del datore di lavoro, simulando la malattia per assentarsi in modo da poter espletare un lavoro diverso o lavorando durante l'assenza con altre imprese concorrenti.
E' quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, con sentenza del 1 agosto 2016, n. 15989, mediante la quale ha accolto un motivo di ricorso e cassato la sentenza della Corte di appello di Roma che aveva deciso il merito con sentenza n. 10298/2014, con rinvio ad altra sezione.
La pronuncia traeva origine dal FATTO che la Corte d'appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, con sentenza 11 dicembre 2014, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato ad una dipendente dalla datrice ESSE s.p.a. a cui ordinava l'immediata reintegrazione della lavoratrice, pure condannandola al risarcimento del danno in suo favore, commisurato sulle retribuzioni globali di fatto maturate dal recesso all'effettiva reintegrazione, oltre rivalutazione, interessi e spese di entrambi i gradi.
A motivo della decisione, la Corte territoriale riteneva lo stato di malattia, da cui la dipendente EFFE ACCA era stata affetta per l'intero mese di febbraio 2012 in cui era rimasta assente dal lavoro, non simulato e compatibile con la prestazione (per cinque giorni a settimana per quattro ore al giorno) della sua attività lavorativa domestica in favore di una terza persona, in quanto inidonea a comprometterne la riabilitazione psichica, ma verosimilmente favorevole alla sua ripresa, tenuto conto della natura diagnosticata della patologia, di sindrome ansioso depressiva, procurata dall'ambiente di lavoro presso la società datrice: con la conseguente illegittimità del licenziamento per tale ragione intimatole.
Avverso tale decisione la ESSE s.p.a. ricorre per cassazione a mezzo di cinque motivi di doglianza.
Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4 c.p.c., per difetto di prova, nell'onere della lavoratrice, della compatibilità in concreto della condizione di malattia con l'attività domestica svolta ed avendo la Corte territoriale operato una valutazione meramente ipotetica, disancorata da un effettivo accertamento.
Con il secondo motivo, la Società ricorrente deduce l'omesso esame di fatti decisivi, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., quali l'effettiva prestazione di attività lavorativa di ESSE ACCA in favore di una terza persona, la natura sua e della patologia da cui affetta e la compatibilità di questa con l'attività lavorativa.
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi, mediante la citata sentenza n. 15989/2016 ritiene la doglianza fondata.
In primis la Suprema Corte fa presente che è noto come, in linea di principio e secondo insegnamento consolidato di questa Corte (ultimamente ribadito da: Corte di Cassazione, sentenza 3 marzo 2015, n. 4237), «non sussista per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare, durante tale assenza, un'attività lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore d'opera».
Sicchè, «non si configura una giusta causa di licenziamento ove non sia stato provato che il lavoratore abbia agito fraudolentemente in danno del datore di lavoro, simulando la malattia per assentarsi in modo da poter espletare un lavoro diverso o lavorando durante l'assenza con altre imprese concorrenti (con quella cui è contrattualmente legato) oppure, anziché collaborare al recupero della salute per riprendere al più presto la propria attività lavorativa, abbia compromesso o ritardato la propria guarigione strumentalizzando così il suo diritto al riposo per trarne un reddito dal lavoro diverso in costanza di malattia e in danno del proprio datore di lavoro».
In conclusione, a dire della Cassazione, la Corte d'appello si è sottratta a quell'accertamento in concreto, di sua spettanza ed all'esito del quale essa avrebbe dovuto compiere le relative valutazioni, in ordine all'effettiva prestazione di attività lavorativa svolta dalla dipendente EFFE ACCA in favore di una terza persona, alla qualità e consistenza di tale prestazione, alla natura della patologia da cui affetta e della compatibilità di questa con l'attività lavorativa. La Corte territoriale non ha condotto alcun effettivo accertamento né in ordine alla prestazione dell'attività lavorativa e tanto meno alla sua natura né alla qualità della malattia ed alla compatibilità di questa con la prestazione lavorativa.
In tal modo, risulta integrato l'omesso esame di fatti storici, chiaramente individuati e decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti: sicché, il tenore astratto e in termini meramente probabilistici della pronuncia, disancorata da un positivo accertamento dei fatti costitutivi della pretesa, ne rivela il carattere di motivazione meramente apparente, ben sindacabile in sede di legittimità nella sua riduzione al "minimo costituzionale", alla stregua del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Corte di Cassazione, S.U. sentenza 7 aprile 2014, n. 8053), applicabile ratione temporis.
Dalle superiori argomentazioni discende coerente, in accoglimento del secondo mezzo assorbente l'esame di tutti gli altri, la cassazione della sentenza impugnata con il rinvio per il superiore accertamento, oltre che per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione.
Avv. Amilcare Mancusi