La lotta all'evasione fiscale è forse, già di per sé, un'espressione poco coerente al quadro politico e sociale in cui si trova l'Italia. Per questo occorrerebbe definire prima il terreno del dibattito, che non è più solo tecnico-giuridico. "Lotta", infatti, presuppone l'esistenza di un nemico ben identificabile e una vittoria (o sconfitta) finale. Un concetto facilmente applicabile a molte condotte devianti ma non a tutte. Non certamente a un costume sociale talmente diffuso da essere mal tollerato solo dai lavoratori dipendenti, oggettivamente costretti a pagare le tasse fino all'ultimo centesimo.
Non di "lotta" si deve quindi parlare, ma piuttosto di "digestione" del fenomeno da parte di un organismo fiscale profondamente diverso da quello attuale, impossibilitato ad affrontare il problema da una selva di norme inapplicabili.
Le riflessioni di Raffaello Lupi, pubblicate su FISCOoggi del 4 maggio scorso, vanno, in sostanza, anche se si riferiscono alla fiscalità locale, nella stessa direzione. Le esigenze erariali vanno commisurate alla realtà economica e alla "capacità di spesa" dei contribuenti, pena il reiterarsi, come in un incubo, di obiettivi di entrate utopistici regolarmente frustrati da risultati avvilenti. Il tutto condito da clamoroso dispiegarsi di mezzi (soprattutto normativi, cioè cartacei) o, ancor peggio, da contabilizzazioni in Finanziaria di somme enormi e non incassabili, che contribuiscono a dare fregacci di colore nero sul quadro sempre più pietoso del pubblico bilancio.
L'insuccesso del concordato, l'ultimo ritrovato per convincere i contribuenti a pagare, non è forse attribuibile del tutto alla questione della triennalità quanto piuttosto all'incapacità dei contribuenti interessati di metabolizzare in generale il discorso fiscale: pagare le tasse non è più da tempo un imperativo etico come lo vedeva Vanoni, ma una seccatura da evitare. Un processo di ricostruzione del rapporto fra Fisco e contribuente passa quindi da un ripensamento dell'organismo sociale, in cui la penetrazione reciproca delle esigenze sociali (incassare le tasse) e individuali (non pagare troppo secondo i propri privati e individuali criteri) trovi una via osmotica e non autoritaria o di contrapposizione. Si tratta di una necessità e non di una scelta: quando la devianza assume connotati di massa, come ci insegnano sociologia, antropologia e criminologia, si cerca di metabolizzarla nell'impossibilità di espellerla o amputarla. E, sempre restando nel campo delle definizioni, l'evasione fiscale è un fenomeno fortemente deviante ma che nasconde la frantumazione di uno dei cardini dei rapporti sociali, quello della solidarietà.
Solo quando verrà rifondato laicamente il rapporto fra Fisco e contribuente sarà possibile pretendere e ottenere il rispetto del patto normativo. Il primo passo è quindi quello di lavorare con impegno sugli studi di settore per individuare con sempre maggiore chiarezza la situazione reale, che non è mai possibile ingabbiare in una norma, e la proposta di Raffaello Lupi per una loro territorializzazione è addirittura sacrosanta. Ma non basta: se agli strumenti di predeterminazione del reddito già in uso all'agenzia delle Entrate si accompagneranno norme che consentano di applicare la necessaria elasticità, conferendo alle agenzie locali la necessaria autonomia per risolvere con rapidità i problemi dei contribuenti che "non si trovano" con gli studi e che si sentiranno a casa e non in Tribunale negli uffici finanziari, allora sarà possibile ricostruire concretamente e non con vane petizioni di principio il sostrato psicologico sui si regge l'imperativo morale della solidarietà attraverso lo strumento fiscale.
Proprio per questo, controlli e verifiche andranno affidati non agli organismi politici locali ma a una forte ed efficiente struttura centrale, quale è l'agenzia delle Entrate, naturalmente attraverso le sue strutture decentrate. Il problema di cui si discute, dopo la Finanziaria 2006, non è però tanto il decentramento dei controlli quanto, in estrema sintesi, la partecipazione attiva degli enti locali all'individuazione di soggetti il cui tenore di vita o la notoria attività imprenditoriale risultino in macroscopica distonia con il reddito fiscalmente dichiarato. Insomma, i Comuni devono collaborare con le Entrate, ricevendone un compenso sul ricavato.
Ciò su cui non si può esser d'accordo non è tanto il meccanismo giuridico o l'entità dei compensi quanto il principio stesso, basato probabilmente su una voglia di mobilitazione antievasione che ancora una volta rientra nel concetto di "lotta" e non di "metabolizzazione" di cui sopra. E che è destinata a restare inappagata. Chiedere infatti a un organo elettivo, che periodicamente viene sottoposto alla verifica delle urne, di individuare gli evasori fiscali fra gli stessi elettori, è un puro vaniloquio. Certo, la perfetta conoscenza del "territorio fiscale" farebbe dei Comuni i collaboratori ideali nella grande battaglia contro l'evasione. Ma se si escludono i grandi Comuni, dove l'autonomia delle strutture che potrebbero essere preposte a questa attività è determinata soprattutto dalla loro grandezza e dal loro potere, sedimentato nelle istituzioni municipali al punto da opporsi in molti casi alle pressioni del potere politico, nella grandissima parte d'Italia ci si troverebbe di fronte a evasori che sono, inutile dirlo, parte cospicua del motore economico comunale e che per la loro posizione sono spesso influenti nella vita politica locale.
Mai come nei Comuni medio-piccoli la logica dei favoritismi viene seguita con italico puntiglio: come pensare che proprio sulla segnalazione degli evasori le cose dovrebbero andare diversamente?
Un caso emblematico: nel maggio del 2005 ho ricevuto una fattura da un avviato, e sottolineo avviato, studio professionale di Lucca, la tipica cittadina italiana bella e civile. Sapete quale numero portava la fattura dopo quasi cinque mesi di attività nell'anno? Era la numero due. Questa è la realtà.
Non è un problema di politica fiscale o economica: è un problema di funzionamento dei meccanismi elettorali, cioè un problema politico. Come sempre, per comprendere meglio, occorre far riferimento ai padri del pensiero politico dell'ottocento. De Maistre, per esempio, aveva abbastanza chiaro il problema.
Sarebbe certo meraviglioso assistere al discorso del sindaco di Castelbello o Pratolieto che, novello Cneo Marcio (meglio noto come Coriolano), si erga dallo scranno municipale per annunciare che d'ora in poi i cittadini notori evasori (come il macellaio dove si serve la moglie del sindaco, la falegnameria di proprietà dell'assessore ai trasporti, il geometra che ha carta bianca in Comune anche perché cognato del vicesindaco) saranno segnalati allo Stato e, di conseguenza, le tasse per loro aumenteranno, insomma che per salvare la Patria occorre combattere contro i suoi cittadini.
Ma questo accade solo nella favole (e non è un caso che la figura di Coriolano sia in realtà leggendaria, creata per giustificare la guerra fra Volsci e Romani). Abbiamo assistito a un condono fiscale di estensione leggendaria proprio negli anni scorsi, tale è stata la fermezza del legislatore e del Governo nel perseguire la lotta all'evasione, che un sindaco di un comune inferiore ai 300mila abitanti sarebbe ben stolto a mettere in atto ciò che l'articolo 1 del Dl 203/2005 gli chiede, attirandosi l'odio profondo di quella vasta classe media che vive con e grazie all'evasione fiscale. E questo, poi, per un compenso incerto e che arriverebbe oltretutto dopo le elezioni!
Non perdiamo, quindi, tempo a "lottare" contro i mulini a vento, sperando di ricondurre a un ovile per loro insopportabile milioni di contribuenti smarriti, nel senso che hanno smarrito il senso della solidarietà. E pensiamo piuttosto a tarare le imposte (e la spesa pubblica) sulle reali possibilità di pagarle. Solo dopo si potrà parlare di equità e progressività.
Certo, una proposta di tal fatta cozza robustamente contro alcuni, chiari, principi costituzionali. E forse i lavoratori dipendenti avrebbero molto da ridire. Tuttavia, un periodo transitorio nel quale avvenga il recupero alla legalità si pone come una priorità ineludibile, non solo di carattere economico ma soprattutto morale.
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