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Mercoledì 13 novembre 2013

Ma conviene vendere Eni ed Enel?

a cura di: www.lavoce.info
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Ma conviene vendere Eni ed Enel?

Per ridurre il debito pubblico si ipotizza di cedere una parte delle partecipazioni azionarie dello Stato. Ma potrebbe essere meno conveniente di quanto appare a prima vista.

Perché i rendimenti sono superiori al costo medio del debito. I parametri che dal 2016 acquisteranno maggiore importanza.

UN DEBITO DA RIDURRE

Anche per merito del ministro Saccomanni si è riaperta la discussione sulle possibilità concrete di ridurre il debito pubblico.
Di per sé, questo è già un fatto notevole. Dal 2016, il vincolo sull'indebitamento netto - nominale e strutturale - verrà posto a sistema con quello della riduzione del rapporto debito-Pil pari a un ventesimo all'anno della distanza tra il rapporto effettivo e il limite obiettivo del 60 per cento. Trascurando i dettagli tecnici, resta fermo un punto: il parametro del debito acquisterà maggiore importanza rispetto a oggi. Ma in questo 2013 resta meno rilevante, come è provato dal fatto che, mentre si pone la dovuta attenzione all'indebitamento netto (3 per cento facciale), contemporaneamente si emette debito pubblico aggiuntivo per pagare i debiti della Pa.
Oggi si può e si deve fare così. Ma tra due anni questa strategia potrebbe provocare, a parità di dinamiche macroeconomiche, qualche costo ulteriore perché, appunto, maggiore debito implica maggiori sacrifici per aggiustarsi al target del 60 per cento.
Come ridurre il rapporto debito-Pil? La crescita (che è inesistente) può fare poco. Pensare di incrementare l'avanzo primario (entrate pubbliche meno spese, al netto degli interessi passivi) fino a rendere positivo l'avanzo assoluto, per poi ridurre il debito rimborsando i creditori tramite l'eccesso di imposte sulla spesa, sembra fuori dal novero delle opzioni pratiche. Il 2012 ha insegnato che c'è un limite a tutto, anche all'incremento della pressione fiscale: a meno di non volere raggiungere un livello di sotto-occupazione ai limiti della guerra civile, bisogna dimenticare la leva fiscale, che può essere ormai utilizzata nel solo verso di ridurre le aliquote legali.
Nell'attuale scenario, dunque, vendere asset pubblici è - anzi, sembrerebbe - una strada quasi obbligata.
Da questo assunto discendono poi, nella discussione pubblica, considerazioni troppo ovvie, ai limiti del banale. Per esempio, affermare che non conviene rinunciare alle partecipazioni strategiche nelle ottime aziende quotate, mentre sarebbe meglio vendere tante imprese pubbliche o para-pubbliche che non rendono, è cosa deliziosa, diciamo da paradiso del manager, ma piuttosto improbabile. È meraviglioso anche il teorema della valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico che potrebbe rendere, ma non rende. Chiunque vorrebbe tenere le cose preziose e cedere, magari a prezzi elevati, quelle scadenti. Su questi due punti non possiamo che concordare e auspicare che si proceda. Ma nelle more dell'inverarsi delle opzioni ideali, è necessario affrontare anche soluzioni meno convenienti: vendere asset pubblici mobiliari, cioè redditizie partecipazioni nelle imprese quotate.

PIÙ CONVENIENTE COMPRARE

Pur senza negare che la riduzione del peso dello Stato nell'economia potrebbe avere virtù ulteriori e complementari rispetto alle pure considerazioni di convenienza, ci sembra opportuno calcolare quanto si potrebbe ricavare dalle dismissioni, tanto per essere sicuri delle cifre in gioco e degli eventuali effetti in termini di debito e indebitamento. (1)
Considerando Eni ed Enel, lo Stato, direttamente o tramite la Cassa depositi e prestiti, detiene partecipazioni il cui valore ai prezzi di marzo 2013 è pari a circa 22,3 miliardi di euro. La cessione di un 30 per cento assoluto di quote, non necessariamente nella stessa misura per le due società, porterebbe 6,7 miliardi di euro da destinare a riduzione di debito (poco più di 4/10 di Pil). Il che potrebbe andare ancora bene, se non fosse che ciò avrebbe effetti negativi sull'indebitamento netto. Infatti, il rendimento di un euro investito nelle suddette società è superiore agli interessi pagati su un euro di debito che verrebbe eliminato dalla vendita delle partecipazioni.

Figura 1 - Rendimento medio (%) dell'investimento dello Stato italiano in Eni ed Enel

Fonte: Eni, Enel e Borsa italiana; il rapporto dividendo su capitalizzazione è dato dalla somma dei dividendi divisa per la somma delle capitalizzazioni delle due società; la capitalizzazione di ciascuna società nei vari punti del tempo è basata sulla media aritmetica delle quotazioni rilevate a giugno e a dicembre.

La figura 1 presenta il rendimento delle due principali partecipazioni dello Stato (relativo ai dividendi, quindi sottostimato nell'ottica di crescita del valore che va parametrata all'utile netto, comprensivo di dividendi e accantonamenti al capitale): siamo attorno al 7,5 per cento (al lordo di imposte di ridotta entità che rappresentano comunque una partita di giro nel bilancio delle amministrazioni centrali). In figura 2 è presentato il costo medio del debito secondo il calcolo suggerito dalla Commissione europea e cioè l'ammontare degli interessi passivi di un anno in rapporto alla consistenza del debito alla fine dell'anno precedente. Il confronto tra le due figure chiarisce che le partecipazioni hanno mediamente un rendimento doppio rispetto al costo del debito. Questo è ciò cui dovrebbe guardare il cittadino medio per farsi un'opinione rispetto alla questione di vendere o meno le partecipazioni. (2)

Figura 2 - Costo medio del debito pubblico italiano

Fonte: Ameco - Commissione europea; il costo medio del debito è dato dagli interessi sul debito in un anno diviso l'ammontare del debito alla fine dell'anno precedente.

Dunque, vendere un euro di partecipazioni nelle quotate produrrebbe effetti negativi sul saldo pari a circa 3,3 centesimi, considerando prospetticamente replicabile la differenza che si ricava tra le medie aritmetiche di figura 1 (7,58) e le medie aritmetiche che si ricavano da figura 2 (4,32).
Talvolta, si dice che vendere oggi è sbagliato perché a questi prezzi si tratterebbe di svendere. Ma non si arriva mai alla logica conclusione che trarrebbe un investitore: se è sbagliato vendere, è giusto comprare.
Ma dove trovare le risorse per farlo? A debito, of course. Successivamente, con ciò che si guadagnerebbe in termini di indebitamento netto (si incassano più dividendi di quanto si paghi di interessi passivi), si investirebbe per la crescita che farebbe giungere il paese al 2016 con maggiore debito in valore assoluto, ma con un minore rapporto debito-Pil. Ciò che conta davvero.
Forse è troppo semplice per funzionare veramente, ma chi deve decidere saprà pesare le oggettive insidie di un debito troppo elevato con i benefici di detenere appetibili partecipazioni.
D'altra parte, in un'ottica più ampia ed eminentemente politica, queste riflessioni andrebbero completate valutando quanto l'interesse diretto dello Stato nelle aziende private determini prezzi di vendita distanti (leggasi: superiori) rispetto a quelli che prevarrebbero in un mercato concorrenziale. Lo scarto è un'imposta sugli utenti piuttosto che sui contribuenti. Ma la sostanza non cambia: comprare o vendere, dismettere, liberalizzare o controllare, sono e restano opzioni complesse che chiedono risposte politiche articolate. Sulle quali, a nostro avviso, il dibattito pubblico è troppo rarefatto.

a cura di Mariano Bella, Silvio Di Sanzo e Luciano Mauro

Note:
(1) Sui vantaggi di una riduzione del ruolo dello Stato in economia, uno di noi ha sostenuto che un calo del debito di mezzo punto percentuale di Pil è sempre un segnale di buona volontà che i mercati potrebbero apprezzare.
(2) Al netto di altri fattori davvero rilevanti oppure strumentali, che vanno dalla possibile risposta dei mercati alla riduzione del debito, ai nobili principi sull'italianità della produzione, dell'importanza dei campioni nazionali e del valore strategico di non abbiamo capito bene cosa visto che il controllo è un fatto giuridico e non è legato, per adesso, alla quota azionaria. Occorre rilevare anche che l'ipotesi di vendita di un blocco di azioni Eni, per esempio, a un unico soggetto non è possibile. Lo statuto chiarisce che, salvo le pubbliche amministrazioni, nessuno può detenere più del 3 per cento. Quindi, l'opzione di vendere a un prezzo sensibilmente superiore a quello di mercato, in virtù di una cessione che incorpora, in qualche misura, poteri di controllo, non è realistica, a meno di una modifica statutaria che presupporrebbe, a sua volta, cambiamenti consistenti nella visione politica del ruolo dello Stato e della sua partecipazione nelle imprese produttive.

Fonte: http://www.lavoce.info

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