L'autorizzazione al lavoro non è un diritto del detenuto agli arresti domiciliari, ma una disposizione eccezionale, che, in presenza dei presupposti previsti dall'art. 284, comma terzo, cod. proc. pen., di stretta interpretazione, consente di derogare al regime detentivo.
E' quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione VI, con la sentenza del 24 gennaio 2017, n, 3635, mediante la quale ha accolto il ricorso e ha annullato con rinvio quanto già deciso dal Tribunale del riesame di Bari con ordinanza del 04/07/2016.
La vicenda
La pronuncia traeva origine dal FATTO che il Tribunale del riesame di Bari ha respinto l'appello proposto nell'interesse di CAIO avverso l'ordinanza del 12 maggio 2016 con la quale il Tribunale di Trani aveva rigettato l'istanza di autorizzazione al lavoro, ritenendo non provato lo stato di assoluta indigenza dell'appellante ed incompatibile lo svolgimento di attività lavorativa con il regime cautelare applicato, indispensabile per contenere il pericolo di reiterazione criminosa, desumibile dal coinvolgimento dell'imputato in un'associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, attiva in vari ambiti territoriali.
Avverso l'ordinanza cautelare ricorre per la cassazione il CAIO, mediante un solo motivo, con il quale denuncia violazione di legge e illogicità della motivazione, in quanto il Tribunale ha fatto riferimento ad un concetto restrittivo e superato di assoluta indigenza, ignorando che nell'istanza erano stati segnalati l'obbligo di mantenimento di un figlio minore, imposto dal Tribunale per i Minorenni, lo stato di gravidanza della compagna e l'onerosità del canone di locazione, che assorbe interamente il reddito dichiarato.
La decisione
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi, mediante la citata sentenza 3635/2017 ha ritenuto fondato il motivo ed ha accolto il ricorso.
Sostiene la Suprema Corte che la valutazione dei giudici di merito quanto all'insussistenza dello stato di assoluta indigenza non risulta corretta né operata in modo completo, tenuto conto che "l'autorizzazione al lavoro non è un diritto del detenuto agli arresti domiciliari, ma una disposizione eccezionale, che, in presenza dei presupposti previsti dall'art. 284, comma terzo, cod. proc. pen., di stretta interpretazione, consente di derogare al regime detentivo".
Precisato che tale condizione va riferita ai bisogni primari dell'individuo e dei familiari a suo carico (vitto, vestiario, alloggio, educazione, salute), deve farsi riferimento alle condizioni reddituali e patrimoniali del soggetto, eventualmente comprensive delle utilità economiche, costituenti anche esse reddito personale, che siano corrisposte dalle persone obbligate per legge o per rapporti contrattuali al suo mantenimento per motivi che prescindano dalla capacità al lavoro dell'assistito.
In particolare, sostiene la Cassazione, non rileva a tal fine la situazione economica dei familiari, poiché essa non è presa in considerazione dalla legge, né sussiste alcun obbligo di mantenimento del sottoposto agli arresti domiciliari a carico dei componenti la famiglia, al di fuori di quello strettamente alimentare, che, peraltro, presuppone una incapacità del congiunto di procurarsi autonomamente un reddito, che potrebbe essere risolta proprio dal provvedimento di autorizzazione al lavoro.
Non risulta decisiva, inoltre, la ulteriore valutazione del Tribunale secondo la quale l'autorizzazione al lavoro vanificherebbe le esigenze cautelari, in quanto, anche se tale parametro può ritenersi implicitamente evocato dalla norma in esame, che attribuisce in proposito al giudice un potere discrezionale pur in presenza di un accertato stato di "assoluta indigenza", la concreta necessità di salvaguardare le esigenze cautelari merita una motivazione di particolare aderenza alle peculiarità del caso, atteso che ad essa si contrappone la necessità di assicurare all'individuo condizioni di vita decenti, riferibile a valori costituzionali (Corte di Cassazione, Sezione VI, n. 32574 del 03/06/2005; Corte di Cassazione, Sezione II, n. 12618 del 12/02/2015).
L'ordinanza impugnata va pertanto, annullata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Bari, Sezione per il riesame delle misure coercitive.
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