Nell'odierno Stato costituzionale, rispettare il diritto non è per nulla semplice; per farlo, dice Zagrebelsky, occorre
«prudenza ed esperienza, attenzione alle forme e alla sostanza, alla logica e alla storia, ai principi generali che stanno nelle premesse e agli effetti concreti che si producono di conseguenza».
Non è cosa da poco. Lo stesso legislatore qualche volta eccede approvando leggi che poco si adattano ad essere calate nel contesto giuridico che sta attorno. Tra queste, è buon esempio la legge che impone alle segreterie dei TAR, dopo cinque anni dal deposito di un ricorso, di notificare alle parti costituite un
«apposito avviso in virtù del quale è fatto onere alle parti ricorrenti di presentare nuova istanza di fissazione dell'udienza». Se l'istanza non viene presentata, dice la legge, il ricorso è perento.
La decisione dei ricorsi amministrativi dovrebbe avvenire nel ragionevole arco di tempo a cui fa riferimento l'art. 111 della nostra Costituzione. Sarebbe stato dunque più coerente se il legislatore avesse approntato gli strumenti necessari per garantire questo risultato, piuttosto che trovare il modo per cancellare alcuni ricorsi dal ruolo dei magistrati, senza deciderli.
Questo breve cenno alla durata dei processi amministrativi, soltanto per dire che l'agire secondo diritto non riguarda soltanto il contribuente, ma coinvolge tutti, anche il legislatore e, perché no, gli stessi giudici. Ciascuno deve essere consapevole del ruolo che ha all'interno della società e, dunque, delle aspettati- ve che la sua funzione crea in capo agli altri.
Dice la Cassazione, e con questo veniamo al tema del diritto tributario che ci interessa, che di queste leggi non si può abusare. Giusto, ma il problema non è l'astratta enunciazione di principio, sul quale altro non si può fare che convenire, il problema vero è quello di individuare gli estremi applicativi di un tale asserto. Poiché uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico è quello del positivismo giuridico, il potere di distinguere il giusto dall'ingiusto compete soltanto al legislatore che lo esercita attraverso le leggi. Poiché, ancora, il compito del giudice è quello di applicare queste leggi (
«i giudici sono soggetti soltanto alla legge», dice infatti l'art. 101 della Carta costituzionale), ne deriva che per stabilire se un determinato comportamento sia o meno lecito, occorre che ciò trovi adeguata regolamentazione in una legge dello Stato e non tanto nel pronunciamento di un giudice.
Tanto più questo deve avvenire nel settore tributario ove vige il principio della riserva di legge sancito dall'art. 23 della Costituzione secondo cui
«nessuna prestazione ... patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge».
Così come avviene nel diritto civile, ove non esiste una norma a carattere generale che definisce l'abuso di diritto come categoria formale, sulla base della quale stabilire quando l'esercizio di un diritto di- viene anomalo, anche nel campo tributario l'abuso di diritto non trova generale regolamentazione. Le sole norme che si interessano del comportamento di chi, per raggiungere l'assetto economico preventivato, segue percorsi negoziali laterali rispetto a quella che dovrebbe essere la via maestra, sono quelle di cui all'art. 10 della legge 29 dicembre 1990, n. 408, poi trasferite nell'art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sull'accertamento.
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